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Stendendo un velo su queste assurdità, non ci possono essere dubbi sul fatto che l'Olocausto abbia lasciato una profonda cicatrice sulla psiche e-braica e che ciò abbia poi influito, nel corso dei decenni, sull'atteggiamento di Israele (la nuclearizzazione del Paese, il suo attacco a Beirut nel 1982, gli esagerati timori di un lancio di armi chimiche da parte di Saddam Hussein nel 1991 e nel 2003, sono tutti comportamenti che hanno in parte le loro radici nella Shoah).
Tuttavia, quello che è un singolo elemento del pensiero e dell'atteggiamento di Israele diventa per Burg l'unico elemento. Lo Stato ebraico d'Israele è convinto – afferma – che «l'intero mondo è contro di noi» (p. 14). «Restiamo aggrappati a quella tragedia ed essa diventa la nostra giustificazione per ogni cosa» (p. 9). Burg paragona Israele a un bambino maltrattato che diventa a sua volta un violento, il bullo del quartiere. «Noi oggi capiamo soltanto il linguaggio della forza» (p. 24). (Israele ha tradizio-nalmente affermato che «gli arabi capiscono solo la forza»; Burg capovolge questa accusa.)
Per dimostrare le proprie tesi, Burg fa violenza alla storia. Egli porta avanti il mito della propaganda araba secondo cui, prima del 1948, gli ebrei vivevano «in pace a fianco degli arabi» (p. 32). Basta una semplice occhiata a qualunque opera storica seria (The Jews of Arab Lands di Joseph Stillman, o Gli ebrei nel mondo islamico di Bernard Lewis) per mostrare al lettore l'inconsistenza di simili affermazioni.
Burg procede a briglia sciolta anche con fatti più recenti. «Le Forze aeree israeliane stavano bombardando e uccidendo persone innocenti sulle spiag-ge e per le strade di Gaza e nei villaggi e nelle città del Libano» scrive (p. 7), quasi come se parlasse dei bombardamenti a tappeto anglo-americani sulla Germania o delle incursioni aeree dei tedeschi sull'Inghilterra (che causarono circa sessantamila morti). Nel corso della Seconda intifada (2000-2004) sono stati uccisi complessivamente circa quattromila arabi, quasi tutti durante gli scontri a terra, e due terzi dei morti erano combattenti. (Le vittime israeliane sono state millequattrocento, e nei due terzi dei casi si trattava di civili.)
Burg sembra non conoscere il vecchio detto di Kissinger secondo cui a volte capita che i paranoici abbiano dei nemici reali (nel caso di Israele, la maggior parte degli arabi all'interno e all'esterno della Palestina, oltre a centinaia di milioni di musulmani non-arabi). E sembra anche ignaro del fat-to che gran parte delle azioni di Israele – a volte eccessive e spregevoli, oc-casionalmente brutali – hanno avuto e hanno luogo in un contesto di guerra e di assedio, di fronte a un atteggiamento arabo di delegittimazione, demonizzazione e rifiuto di ogni compromesso. Egli dedica a malapena una frase ai veri nemici reali di Israele, ai loro obiettivi e alle loro azioni, indicandoli come la causa del comportamento israeliano, anche se a un certo punto raccomanda a Israele di non temerli, perché questa volta «non siamo soli di fronte alla minaccia di un potente nemico […]» (p. 9). Questa volta il mondo proteggerà Israele. Burg non spiega però su che cosa si fonda questa sua certezza.
Egli continua – a mio parere in modo osceno – a paragonare Israele alla Germania di Hitler, ribadendo al contempo di non avere nessuna intenzione di fare un simile paragone. Scrive: «Oggi in Israele ci sono terribili strati di razzismo che non sono sostanzialmente diversi da quel razzismo che ha cau-sato lo sterminio di molti dei nostri avi» (p. 198). O ancora: «Certo, noi non siamo come la Germania […] al culmine della Soluzione finale. Ma […] non sempre sono in grado di distinguere tra il primo nazionalsocialismo e alcune teorie nazionali [che circolano in Israele]» (p. 192).
C'è qualcosa di decisamente stonato in questo libro. Burg sta attualmen-te facendo causa all'Agenzia ebraica perché quest'ultima gli ha ritirato l'auto con autista e gli uffici che rientrano tra i benefici di cui godono (per tutta la vita) i suoi ex presidenti.
A un certo punto, egli definisce il razzismo israeliano come «ipocrita e viscido» (p. 198). Stando alle ultime notizie che ho sentito, Burg sta ora cer-cando di fare un ritorno politico entrando nel nuovo movimento di sinistra costruito attorno al vecchio partito sionista Meretz. Mi hanno detto che A-mos Oz, A. B. Yehoshua e gli altri «fondatori» di questo movimento lo stanno tenendo a distanza. Forse lo ritengono «ipocrita e viscido».
Avraham Burg,
The Holocaust is Over; We Must Rise from Its Ashes,
Palgrave MacMillan, New York 2008, $ 26,95.